Drive my Car, a San Felice il film premio Oscar di Ryūsuke Hamaguchi

Trama

L’attore e regista teatrale Kafuku Yûsuke, vedovo della moglie Oto, deceduta per un aneurisma celebrale, accetta l’incarico di dirigere una versione di Zio Vanja di Cechov ad Hiroshima.

La produzione gli impone come autista Misaki, una ragazza impenetrabile ma molto abile nella guida. Tra un viaggio a bordo della Saab rossa di Yûsuke e le prove in teatro, entrambi dovranno fare i conti con il proprio passato.

Critica

Andando a vedere Drive my car bisogna pensare che ci troveremo di fronte a due film: uno di circa 40 minuti, tanto dura il lungo prologo in cui ci viene svelata la storia di Kafuku Yûsuke, di sua moglie Oto, sceneggiatrice TV e del giovane Takatsuki, attore giovane ma già famoso, a cui segue il film vero e proprio, che ha il suo inizio in modo classico mentre scorrono i titoli di testa: il protagonista, a due anni dalla morte della moglie, accetta un incarico in una città in cui non è mai stato prima e dove gli viene imposta un’autista donna che dovrà guidare la sua amata Saab 900 turbo di colore rosso.

Noi a questo punto abbiamo già imparato a conoscerlo e siamo al corrente dei drammi della sua vita, tra cui la perdita della figlioletta in tenera età.

Il regista Hamaguchi Ryusuke adatta per lo schermo un racconto di Murakami e riesce a imbrigliarci nella storia, ad ipnotizzarci, utilizzando un montaggio secco privo di dissolvenze, con un abile alternarsi di momenti quotidiani sottilmente perturbanti e colpi di scena, proprio come fa Oto, ripresa in silhouette, in un momento molto intimo all’inizio del film, mentre racconta al marito la trama che sta scrivendo per una sceneggiatura.

Si compongono quindi altre storie all’interno di quella principale, apparentemente slegate eppure tutte intrecciate dalla narrazione in una sorta di racconto da “Mille e una notte”.

Nella storia narrata da Oto una ragazza-lampreda penetra nella casa del ragazzo di cui è innamorata, lasciando degli oggetti e prendendone altri, come se lo scambio di piccole cose le permettesse di fondersi con l’amato anche a distanza (ma questo è solo l’inizio).

Yûsuke invece recita “Aspettando Godot” a teatro e poi ripassa in auto le battute di “Zio Vanja”, aiutato dalla voce registrata della moglie, mentre nelle prove dello spettacolo attori di diverse nazionalità recitano ciascuno nella propria lingua in un simbolico tentativo di superare l’incomunicabilità. Infine la misteriosa autista Misaki, infagottata nei suoi abiti maschili e protetta dall’inusuale ruolo professionale, lentamente trova il coraggio di confidare i terribili traumi del suo passato al passeggero durante i lunghi tragitti in auto.

È proprio l’auto il vero centro della storia, l’automobile come il non-luogo in cui è possibile isolarsi dal resto del mondo e trovare quella sincerità che non ci è permessa altrove, raccontare cose mai dette ad altri o anche solo ritrovare se stessi.

Altri registi, tra cui uno dei riferimenti di Hamaguchi Ryusuke, Abbas Kiarostami, hanno enfatizzato il ruolo dell’automobile ambientando interi film all’interno degli abitacoli.

L’automobile come luogo protetto, intimo, che ci permette di spostarci attraversando paesaggi mutevoli restando riparati, illudendoci di restare fermi, portando con noi il nostro guscio come la tartaruga la sua casa, illudendoci forse di sfuggire al destino di ogni viaggio, che è quello di trasformare i viaggiatori. A questo destino non sfuggono nemmeno i nostri protagonisti, tanto più che c’è di mezzo anche il teatro, altro formidabile mezzo di scoperta e analisi dell’animo umano.

Un uso parco della musica solo per sottolineare alcuni momenti importanti, una fotografia essenziale con qualche accenno di stile noir, una recitazione che scava minuziosamente nei personaggi per diventare il più possibile naturale, alla ricerca di un realismo che lascia trasparire attraverso il racconto orale la complessità della vita e gli intrecci straordinari della sorte.

Durante le prove a teatro gli attori recitano in più lingue (giapponese, cinese filippino e perfino il linguaggio dei segni coreano) un testo da tutti conosciuto, zio Vanja, e più volte viene ripreso il significativo monologo di Sonja, quello struggente “Zio Vanja, vivremo” che ci conduce in qualche modo all’epilogo del film.

Opera realista, nel suo procedere semplice, tra racconti, spostamenti in auto, paesaggi neutri e impersonali (di Hiroshima, città simbolica, Misaki mostra a Yûsuke per prima cosa l’inceneritore delle immondizie) si riveste di poesia e mistero nei racconti, mettendo l’accento sulla centralità della parola ed andando a toccare in profondità sentimenti universali, come il senso di colpa, ed evitando le insidie di un facile melodramma per tradursi in un’opera di rara sincerità e bellezza.

Camilla Lavazza

La scheda del film

Titolo originale: Doraibu mai kâ.

Regia: Hamaguchi Ryusuke
Sceneggiatura: Hamaguchi Ryusuke e Oe Takamasa
Tratto dall’omonimo racconto di Murakami Haruki
pubblicato da Einaudi in Uomini senza donne (2015)

Personaggi e interpreti

Yūsuke Kafuku: Hidetoshi Nishijima

Misaki Watari: Tôko Miura

Oto: Kirishima Reika

Kōji Takatsuki: Masaki Okada

Kon Yoon-su: Jin Dae-Young

Janice Chan: Sonia Yuan

Montaggio: Yamazaki Azusa

Musica: Ishibashi Eiko

Scenografia Seo Hyeonsun

Costumi Koketsu Haruki

Trucco Ichikawa Haruko

Produttore Teruhisa Yamamoto

Produttore esecutivo Nakanishi Kazuo, Sadai Yuji

Durata 179 min

 

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Camilla Lavazza