Addio a Marco Roncetti, il padre del Parco Alto Garda Bresciano

TIGNALE - L'Alto Garda piange Marco Roncetti, tignalese, amministratore e presidente della Comunità Montana Alto Garda Bresciano per cinque mandati. Tenne a battesimo il Parco.

Marco Roncetti, tignalese di Piovere, è morto all’eta di 79 anni, in ospedale a Milano, dove era stato trasferito da Desenzano in seguito all’aggravarsi dei sintomi del Covid.

E’ stato il presidente della Comunità Montana che ha ideato, voluto e tenuto a battesimo il Parco dell’Alto Garda Bresciano, istituito con la legge regionale n. 58 del 15 settembre 1989.

E’ stato il primo presidente della Comunità Montana Parco Alto Garda Bresciano e, a riconoscimento delle sue capacità, ricoprì la carica per cinque mandati.

Ha infatti presieduto il direttivo dell’ente dal 1972 al 1981, negli anni in cui prese forma l’idea dell’area protetta, e poi ancora, dopo una legislatura come vice di Giovanni Pelizzari, dal 1985 al 1999, quando il parco venne finalmente istituito e cominciò ad operare.

La notizia della scomparsa di Marco Roncetti ha destato vasta eco e vivo cordoglio nelle comunità di Tignale e di tutti i paesi dell’Alto Garda. Non si contano, nel territorio del Parco, le opere promosse durante i suoi mandati in Comunità Montana, dal Piano di recupero della Valle delle Cartiere a Toscolano, al restauro della Limonaia del Prà de la Fam a Tignale, al recupero fienili di Cima Rest, al Piano integrato della Valvestino, fino al Centro visitatori di Prabione, a Tignale. Opere che ancora oggi sono lì a dimostrare la sua lungimiranza.

Ma la sua opera più grande resta il Parco Alto Garda Bresciano, istituzione che volle fortemente a tutela di un territorio che amava profondamente.

La riviera dell’Alto Garda bresciano.

 

 

Di seguito un’intervista a Marco Roncetti che risale al 2009, in occasione del ventennale del Parco.

Quando nacque il Parco? Marco Roncetti: «Nel 1977 la Giunta regionale ipotizzò la creazione di 25 parchi. Tra i territori prescelti c’era anche quello dell’Alto Garda e della Valsabbia. L’idea del Parco cominciò a prendere forma e sull’Alto Garda si è fece strada la convinzione di avanzare una proposta specifica, anche per evitare una imposizione dell’alto della sua istituzione. Si cominciò a pensare ad un Parco che alle necessità di salvaguardia affiancasse un’azione di controllo e promozione delle attività umane compatibili in grado di offrire un’occasione di sviluppo per le zone disagiate. Due anni più tardi, nel ’79, la Comunità Montana aveva predisposto la propria proposta istitutiva, facendo coincidere il territorio del Parco con quello della Comunità Montana stessa. Non si voleva creare una inutile e costosa sovrapposizione di organi gestionali».

A che tipo di Parco si pensava? «L’incarico di perfezionare la proposta di legge istitutiva fu affidato a Valerio Romani. Si fece riferimento ad una concezione nuova, quella enunciata da Giacomini in «Uomini e Parchi»: il parco non può essere solo una riserva da proteggere e preservare, ma un’area in cui controllare le attività e promuovere uno sviluppo socioeconomico del territorio. Furono innumerevoli gli incontri, e a volte anche gli scontri, con la Regione e nell’88, finalmente, venne recepita la nostra legge, quella che poi diventerà la legge istitutiva del Parco».

Come fu accolto il Parco dalle comunità locali? «Il territorio era d’accordo. Tutti i Comuni ritenevano che fosse necessaria una nuova regolamentazione, soprattutto in campo urbanistico. Le maggiori perplessità furono espresse dal mondo venatorio. Nel Parco tutte le attività dovevano essere sì regolamentate, ma non proibite. Così anche la caccia. Il vero polverone si alzò con l’approvazione della legge quadro sulle aree protette, la 394 del ’91, che di fatto proibiva le doppiette su tutto il territorio del Parco. La questione è stata risolta con una modifica della legge regionale: il “Parco naturale regionale” è stato strasformato in “Parco regionale” e l’attività venatoria, pur limitata e regolamentata, è stata consentita».

Quale giudizio si può dare dai primi vent’anni del Parco? «L’istituzione dell’area protetta ha stimolato una nuova consapevolezza tra gli amministratori locali, che hanno cominciato a guardare a certi problemi da una prospettiva generale e non più particolare. Prima era davvero difficile mettere d’accordo, per esempio, Salò con Valvestino o con Tignale. Il Parco ha permesso di allargare gli orizzonti. Su questo fronte lavoravamo già negli anni Settanta con la Comunità Montana: ricordo le proposte sul consorzio per la raccolta dei rifiuti solidi urbani, gli studi generali come il Piano di sviluppo, il Ptc, il piano urbanistico e quello paesistico. È stato fatto molto, dalle progettazioni a carattere generale di fine anni Settanta – come la provincializzazione della strada di collegamento con Capovalle, la creazione di una rete viaria di penetrazione, la provincializzazione del tratto Vesio-Limone – fino agli interventi prettamente qualificanti del Parco: il recupero fienili di Rest e della limonaia del Prà de la Fam, lo studio sulla Valle delle Cartiere, il Piano integrato della Valvestino, il Centro visitatori a Prabione.

Rispetto alle aspettative la sfida del Parco è stata vinta? «Molti obiettivi sono stati raggiunti. Ma il nostro obiettivo principe, il vero punto d’arrivo, era la scomparsa dei Parchi, intesa come diretta conseguenza di una nuova mentalità secondo la quale tutto il territorio deve essere gestito con criteri di salvaguardia e tutela, senza bisogno che ci sia un parco».

Parole di grande attualità.

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