Mario Rigoni Stern: il legame con il Garda

LAGO DI GARDA - La storia di Mario Rigoni Stern ha incrociato anche il lago di Garda. L'amicizia col Caporal maggiore Fausto Bertolazza di Gargnano, i commilitoni della campagna di Russia, la battaglia di Kotowsky.

Sabato 27 novembre a Vestone, in Valsabbia, è in programma una giornata dedicata a Mario Rigoni Stern, quale celebrazione del centenario della nascita del famoso scrittore, cittadino onorario vestonese (ne abbiamo scritto qui).

Ma la storia di Mario Rigoni Stern ha incrociato anche il lago di Garda. Forse non fu accasermato sul lago prima della partenza per il fronte, anzi, per i tanti fronti che lo videro protagonista: Francia, Albania, Russia.

Certamente vi tornò, e non solo in occasione di convegni o conferenze. A motivare il Sergente maggiore Rigoni Stern fu soprattutto l’affetto verso un commilitone, il Caporal maggiore Fausto Bertolazza (per tutti: il Pici), pure lui alpino reduce dalla campagna di Russia combattuta nei terribili mesi a cavallo tra il 1942 e il 1943.

I reduci Chimini Alessandro e Bertolazza Fausto in occasione della adunata sezionale del 2013 a Gargnano.

 

Un’amicizia estesa ad altri benacensi: Giulio Franzoni, 22enne caduto in Russia, il commilitone Dotti, il dottor Giannotti, tutta gente che era a Kotowskji il primo settembre 1942, quando vennero mandati all’assalto di Quota 228 e di Quota 236.

“Pici” partecipò a quella battaglia e portò a casa la pelle per puro miracolo e grazie a Rigoni Stern.

Colpito al petto, Pici stava rientrando barcollando, impugnando un paio di bombe a mano, quasi senza riuscire a reggersi in piedi. Mentre i suoi compagni lo guardavano tornare lentamente sotto il fuoco russo e lo vedevano muoversi senza averlo neppure riconosciuto, con il viso “bianco come la carta, stringendo i denti sotto le labbra dischiuse”, fu per primo il Sergente maggiore Mario Rigoni Stern a dirigersi verso di lui.

Tornarono verso la postazione italiana senza sentire spari o essere disturbati. Capirono in seguito, scrisse Rigoni Stern, il perché. Stavano infatti attraversando un campo minato e chi li osservava attendeva appena lo scoppio che li avrebbe fatti saltare in aria. Bertolazza non ce la faceva più, Rigoni Stern con un braccio lo sorreggeva e con l’altro teneva un mitragliatore. In “Ritorno sul Don”, Rigoni Stern racconta che attraversarono il campo senza danni e raggiunsero un posto di medicazione. Stesero Bertolazza sull’erba: “aveva il viso colore della cenere e il petto e il ventre rossi di sangue”.

Quel primo settembre segnò un esordio maledetto per gli alpini del Vestone, del Valchiese e del Verona. Molti di loro si erano addestrati alla caserma di Bogliaco. Poi, nel luglio1942 vennero ammassati nella cintura torinese e da lì mandati in Russia. Informazioni di prima mano si hanno dal Diario storico militare della 2 ͣ Divisione Alpina Tridentina relativamente al periodo luglio-dicembre 1942. Alla Divisione apparteneva anche il 6° Reggimento Alpini (Battaglioni Val Chiese, Verona, Vestone).

caserma Magnolini
L’ex caserma Magnolini vista dalla strada per Navazzo.

 

La campagna prese avvio il 20 luglio 1942, un lunedì, con la partenza del 621° ospedale da campo dalla stazione ferroviaria di Avigliana per raggiungere il fronte operativo russo. Il 24 fu la volta del 6° Nucleo Sussistenza, partito da Torino Dora. Domenica 26 partono dalla stazione ferroviaria di Torino Smistamento, il Comando Reggimento, la Compagnia Comando Reggimentale, il Comando Battaglione Vestone, la 53esima  e la 54esima Compagnia, la Compagnia Comando Vestone. Il tempo era bello. Dopo due settimane in treno raggiunsero Gorlowka e da lì per via ordinaria (cioè a piedi) coprirono altri 400 chilometri.

Neppure il tempo di capire dove si trovavano ed ecco quel terribile primo settembre.

Nei diari storico militari (stesi da ufficiali del Reggimento) traspare che da parte degli “alleati” tedeschi non c’era stato un atteggiamento di collaborazione, nonostante gli accordi della vigilia. Gli alpini occuparono Quota 228, in prossimità di Kotowskij, ma non ebbero alcun sostegno e dovettero ripiegare, con ingenti perdite.

Rispetto al linguaggio ufficiale dei diari appare più sciolto quello degli scrittori nel puntare il dito sia per accusare le truppe tedesche che per criticare gli strateghi italiani, che avevano mandato gli alpini all’assalto senza un’adeguata azione dell’artiglieria e con il sostegno di carri armati ridicoli rispetto a quelli russi.

Nuto Revelli, anch’egli reduce, in “La guerra dei poveri” scrive che “su quota 228 due Battaglioni del 6° Alpini, il Vestone e il Val Chiese, attendevano l’ordine di attacco. Ecco come il comando tattico da cui dipendeva il 6° Alpini mandò al macello questi reparti. Alle 4 niente preparazione dell’artiglieria, niente intervento dell’aviazione italiana. Alle 5 l’aviazione non era ancora comparsa. Anche le due colonne corazzate tedesche erano mancate all’appuntamento. Arrivarono, sferragliando, una ventina di carri armati italiani, leggeri come scatolette di latta: tre tonnellate pesavano, meno di un camion. Caddero centinaia di alpini. Correndo alla garibaldina, i battaglioni scesero contro le mitragliatrici. Si dispersero. Molti morti, nessun risultato. Dopo due notti, su quota 228 rientravano ancora gli ultimi sbandati del Vestone e del Val Chiese”.

 

 

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