The wife, altro ruolo memorabile per Glenn Close

CALVAGESE DELLA RIVIERA - Sabato 3 agosto alle 21, per Cine MarteS, al Museo d’arte Sorlini si proietta «The wife – vivere nell’ombra»,  la storia di un matrimonio quarantennale fondato su un patto segreto. Ecco la recensione di Camilla Lavazza.

La sua anima si dissolse lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti”. (J. Joyce, I morti – Gente di Dublino)

Trama: Una telefonata notturna sveglia una coppia anziana, come ce ne sono tante, lui (Jonathan Pryce) egoista e un po’ infantile, lei (Glenn Close) remissiva e vagamente depressa. La notizia è eccezionale: lui ha vinto il Nobel per la letteratura.

Nei giorni precedenti alla premiazione, a Stoccolma, grazie ad un insistente reporter (Christian Slater) emergeranno i lati oscuri dello scrittore e forse anche il suo più grande segreto…

 

Critica: La visione di questo film potrebbe creare un po’ di tensione in alcune coppie di spettatori, in particolare fra quelli che hanno passato già una buona parte della loro vita insieme, nella buona e nella cattiva sorte, a causa dell’alta probabilità di immedesimazione. Infatti, pur essendo piuttosto raro incontrare vincitori di premi Nobel, non lo è affatto trovare coppie in cui uno dei due si appoggia totalmente all’altro, sfruttandone e soffocandone i talenti, e un po’ tutti, a volte, siamo tentati di cedere al vittimismo.

In verità è qualcosa di più complesso ciò che accade alla coppia formata da Joan e Joe che, già dai nomi tanto simili, sono destinati ad essere interscambiabili e complici, termine ambiguo come il loro rapporto costruito sui compromessi, che siano i “doveri coniugali”, il mangiare dolci fuori dai pasti o il chiudere gli occhi sulle scappatelle (di lui, naturalmente).

La sceneggiatura semina sapientemente indizi e rimandi, per farceli poi riconoscere al momento giusto, mostrandoci quanto il “grande” uomo non sia geniale come tutti credono: i suoi discorsi pubblici sono ordinari, il suo comportamento è banalmente egoista ed infantile, perfino nella seduzione usa sempre gli stessi cliché (ed anche Joyce può venire in aiuto), pure quando sono fuori tempo massimo.

Solo il reporter Bone, un Christian Slater viscido e spregiudicato, pare interessato ad insinuare dubbi su di lui a fini scandalistici, mentre Joan (interpretata con matura sottigliezza da Glenn Close attingendo all’esperienza accumulata nella lunga carriera) con la sua apparente remissività pare a proprio agio a “vivere nell’ombra”, come recita, scoprendo subito le carte, il sottotitolo italiano del film.

Lei non cede mai alla tentazione dell’autocommiserazione, non vuole essere ringraziata (sarebbe troppo poco, in fondo, essere solo la “musa” silenziosa, e sarebbe anche ipocrita, allora meglio niente) è consapevole del proprio valore, mentre lui (Jonathan Pryce, un maestro di ambiguità, a cavallo tra fascino e mediocrità) forse vive la condizione peggiore, la paura di essere inadeguato (che si legge anche nel rapporto conflittuale con il figlio interpretato da Max Irons che, da figlio d’arte, è perfetto per incarnare il giovane schiacciato dalla fama del genitore) che diventa giustificazione da psicologia spicciola, insieme all’altro luogo comune secondo cui gli uomini di genio hanno una “libido super-attiva”, per i suoi tradimenti.

Tanto quanto lui cede facilmente alle sue debolezze, tanto lei è controllata e matura in un rovesciamento dei loro ruoli iniziali di docente e studente. Ed è proprio in un contesto controllato, anzi, altamente formale, come la consegna dei premi Nobel, accuratamente ricostruita nella sua sfarzosa cerimoniosità, che il loro equilibrio subirà il più duro colpo.

In uno dei tanti flashback del film, attraverso cui scopriamo gradualmente le ragioni e le dinamiche del loro legame, la disillusa e un po’ alticcia scrittrice Elaine Mozell consiglia alla giovane Joan, studentessa di belle speranze innamorata del suo professore, di “Non vivere nell’illusione di attirare la loro attenzione” (degli uomini che hanno il potere).

Ma uno scrittore deve scrivere” risponde l’ingenua fanciulla. “Uno scrittore deve essere letto, tesoro…” ribatte l’altra, sintetizzando come l’arte sia un’urgenza personale ma anche comunicazione.

Joan è realista, sa che non basta credere ai propri sogni perché si realizzino, Joe invece non accetta le critiche, ricorre ai ricatti morali e finisce per credere lui stesso di meritarsi quel premio.

L’urlo al plurale di lui “Siamo stati pubblicati!” si trasforma negli anni nel singolare “Ho vinto il Nobel!”, a cui la moglie partecipa ugualmente saltando di gioia. Sì, lei ha vinto il Nobel e non importa se è l’unica a saperlo, ci sono soddisfazioni tanto grandi da non aver nemmeno bisogno di una condivisione.

Camilla Lavazza

 

 

Titolo originale: The Wife

Regia Björn Runge

Sceneggiatura Jade Anderson

Tratto dall’omonimo romanzo di Meg Wolitzer

Interpreti e personaggi

Glenn Close: Joan Castleman

Jonathan Pryce: Joe Castleman

Christian Slater: Nathaniel Bone

Max Irons: David Castleman

Elizabeth McGovern: Elaine Mozell

Alix Wilton Regan: Susannah Castleman

Annie Starke: Joan Castleman giovane

Harry Lloyd: Joe Castleman giovane

Fotografia Ulf Brantås Montaggio Lena Runge

Musiche Jocelyn Pook Scenografia Mark Leese

Costumi Trisha Biggar Trucco Charlotte Hayward

Produttori Claudia Bluemhuber, Piodor Gustafsson, Rosalie Swedlin, Meta Louise, Foldager Sørensen, Piers Tempest Produttori esecutivi Gero Bauknecht, Nina Bisgaard, Florian Dargel, Tomas Eskilsson, Steve Golin, Hugo Grumbar, Tim Haslam, Gerd Schepers

Durata 100 min

 

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