Il tema di Leonardo: “I miei genitori, eroi in prima linea”

SALO' - Papà e mamma sono medici. E lui si è trasferito precauzionalmente dai nonni. Leonardo ha 14 anni, fa la prima al liceo Fermi di Salò ed ha raccontato questi giorni strani in un tema commovente, in cui parla della sofferenza della separazione dai genitori.

Anche i figli dei medici sono in trincea. Mentre le mamme e i papà combattono in ospedale, bambini e adolescenti sono stati isolati nelle loro stanze, per non essere infettati. Babysitter disposte ad entrare nelle case dei sanitari, potenziali untori, non se ne trovano. Chi può, ha spedito i figli dai nonni. E non li vede da settimane.

Sono in questa situazione anche due medici gardesani, marito e moglie che lavorano in strutture della zona con pazienti Covid-19. Sono i genitori di Leonardo, 14 anni, studente di prima al liceo Fermi di Salò, che ha raccontato questi giorni strani in un tema commovente, in cui parla della sofferenza della separazione.

Ecco il tema di Leonardo.

«Io non so perché. Io davvero non riesco a capire il perché abbiano deciso di prendere quella laurea in medicina. Ormai me lo domando tutti i giorni, ma faccio molta fatica a capirlo.

Mi alzo alla solita ora, apro gli occhi e mi alzo da un letto che non mi appartiene, quello della casa dei miei nonni. La giornata inizia, così come le domande che mi si pongono appena vado a fare colazione, accendo il televisore e vengo travolto dal peso di milioni di notizie riguardo a un unico argomento: il famigerato “Coronavirus”. Ogni volta rimango sbalordito dalle facce di tutti quei ministri, giornalisti, reporter oramai stremati di ripetere le stesse identiche cose ad una popolazione talmente ottusa da far riempire qualsiasi programma di elenchi di regole e normative che tanto proprio queste non ascolteranno. Perché loro devono fare cinque chilometri per portare a spasso il cane, perché loro devono andare a fare la spesa tutti i santi giorni, perché loro sono in imbarazzo a farsi vedere con la mascherina, perché loro questa minaccia non la temono, fanno finta di temerla, la ignorano.

Forse a loro non importa della propria vita e di quella degli altri, forse non importa di dover morire senza nessuno che stringa loro la mano. Le domande continuano a farsi sempre più pressanti e ad un certo punto vengo come trafitto da una lancia di odio e rassegnazione. Mi manca la mia casa, mi mancano davvero tanto i miei genitori; non posso farci nulla, è così e basta, mi ripeto. Del resto, il rischio era troppo alto, stare con loro sarebbe stato come servire ai miei nonni un biglietto di sola andata nell’aldilà, perciò ora sono qui.

Sono le otto ed ecco dei passettini provenire dalla camera. Sono quelli del mio fratellino. Lo fisso in silenzio mentre è davanti a me, intanto si stropiccia gli occhi. Chissà cosa ha in mente, chissà se sta pensando ai supercuccioli o al virus; del resto chi siamo noi per capire anche un minimo della complessa semplicità dei pensieri infantili. Decido di alzarmi dalla sedia sotto al tavolo e vado a sciacquarmi il viso, con la speranza di fermare la corsa del mio pensiero. Eccomi davanti allo specchio, con i miei due occhi marroni che sembrano spegnersi ogni giorno di più in questo inferno emotivo, che non lascia spazio al cuore e all’immagine dei miei genitori che combattono sempre più logori contro un nemico molto più forte di Hitler e molto più tenace di qualsiasi armata.

Mi preparo, tra pochi minuti inizia la scuola. C’è latino. Sento di non essere nelle condizioni per poter affrontare la terza declinazione, sono perso in tutt’altro, ma non posso arrivare in ritardo a lezione. Mi metto davanti al computer e tutto procede normalmente. A metà lezione però tutto cambia; d’un tratto la priorità diventa conoscere chi fu Ippocrate, autore di un giuramento che vorrei i miei non avessero mai recitato. Il latino non mi importa più e inizio a leggere il fatidico giuramento, fin quando un punto attira la mia attenzione.

«Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro di prestare soccorso nei casi d’urgenza e di mettermi a disposizione dell’Autorità competente, in caso di pubblica calamità»

“Grazie signor Ippocrate, davvero”, non posso che pensare. Perché giurare una cosa simile, nessuna persona ragionevole farebbe una cosa simile, sarebbe come sottoscrivere con piacere la propria condanna a morte. Tante volte ho chiesto a mia madre il perché avessero scelto di fare questo lavoro e mi aveva sempre risposto che lo facevano per aiutare il prossimo, per salvare vite. Di una cosa però son certo: quando diceva questo non avrebbe mai immaginato di doversi allontanare dai suoi figli per salvare la vita ai suoi genitori. «Leonardo, continua tu », sento pronunciare dagli altoparlante e sono costretto a tornare nella realtà.

Il fermento dentro di me fa passare le ore con una velocità fulminea, senza accorgermene sono già le due del pomeriggio. Mi rendo conto dell’orario e decido di scendere al piano inferiore a fare i compiti. Però, mentre cammino verso la porta che dà sulle scale, sono come catturato da qualcosa. Mi guardo intorno, voglio capire cosa sia e dopo un attimo ho la mia risposta: a pochi metri da me c’è mio nonno. Lo guardo, osservo la sua espressione desolata, ritrovo la pesantezza della situazione in ogni ruga di un viso anziano che ha visto davvero molte scene, belle o brutte che fossero. È fermo, seduto sul divano e guarda altrove, verso le montagne fuori dalla finestra, che gli ricordano tutti i sentieri impervi che ha percorso anni prima pervaso dal brio dell’aria pura e dal profumo della resina degli alberi. E ora di tutto ciò sembra rimasto ben poco, solo qualche fotografia. Mi avvicino a lui e mi nota; gli sorrido. Non ne capisce il motivo, ma non importa, io lo so e ritorno allora sui miei passi, per poi scendere le scale.

Il tempo passa inesorabile. Sono solo. Davanti a me un computer, dei libri e dei quaderni disordinati. Il ticchettio dell’orologio è sempre più pesante e sento di non avere la forza di affrontare tutti quegli esercizi in solitudine, allora decido di chiamare qualche mio amico e tutto diventa più facile. Per qualche decina di minuti posso tornare ad assaporare almeno una minima parte della fantastica vita di prima, fatta di chiacchiere durante la lezione e di uscite all’aria aperta. Quel liceo che tanto avevo odiato alle sette della mattina di ogni giorno, si rivela essere il luogo più bello del mondo, ora.

In questa fantastica sensazione di conforto, i compiti sono sempre meno e il tempo sembra lasciare spazio a qualche risata condivisa con i miei compagni. Anche per oggi i compiti sono finiti e allora scelgo di chiedere a mio fratello di giocare con me. Con lui il rapporto è sempre stato strano, ma tra noi ci siamo sempre sostenuti. Carico un tiro verso di lui e in quel movimento è come se ritornassi bambino, a quando con lui stavo ore sotto il sole a giocare a palla con la leggerezza stampata addosso, nei suoi occhi azzurri, nei suoi capelli biondissimi.

Anche ora i suoi occhi sono azzurri, ma come i miei sembrano sempre più vuoti. Lo osservo mentre tenta di sorridere, ma quella smorfia vagamente sorridente spegne ogni voglia di giocare. I passaggi continuano per pochi minuti e poi ognuno di noi si rifugia in se stesso.

Per me il rifugio migliore di tutti è sempre stato quello della musica, così impulsivamente afferro lo strumento e inizio a suonare senza fermarmi per un po’ di tempo, ma poi trascinato dalla musica sento come qualcosa che mi si smuove dentro. Inizio allora a riprovare sempre le stesse battute per renderle discrete, tuttavia continuo a sbagliare. Non ce la faccio più, metto tutta la mia disperazione in quelle note, finché mi arrendo. Prendo il clarinetto, lo poso e cado in un pianto disperato, secco, senza singhiozzi, fatto solo di poche lacrime e di un respiro soffocato, che dura poco. In guerra non c’è tempo per piangere.

Ancora una volta sento di aver toccato, come si suol dire, “il fondo del barile”, così rimango muto, soffocato dal silenzio di una musica che non c’è più e da un pianto solitario che si è spento. Per una decina di secondi ho come una sensazione strana: mi sembra di essere pesante, di piombo, come se tutto ciò a cui ho pensato si riversasse all’interno del mio corpo, troppo giovane per superare il momento e troppo adulto per ignorarlo. L’assordante silenzio continua, pervade ogni centimetro cubo di una stanza fredda in cui non sono rimasti che quaderni sparsi e note che sembrano pronte a volare via per sempre. Non so davvero cosa fare, il mondo mi sta sommergendo, ma mi ricordo improvvisamente di una frase che mi disse mia madre, un giorno in cui eravamo ancora nella stessa casa: l’unico modo per uscire da una brutta situazione è stare in compagnia. E così voglio fare, non so se per seguire la fantomatica e famigerata “voce della coscienza” o perché non ho più nulla per distrarre l’attenzione dal vuoto cosmico che sta caratterizzando la mia vita in questi giorni, ma non mi interessa.

Abbandono tutti gli oggetti che mi avevano circondato fino a dieci minuti prima e salgo al piano superiore. Appena entrato dalla porta vengo come attirato da una voglia di affetto inimmaginabile che mi porta in cucina, dove mia nonna sta preparando la cena. Mia nonna ha fatto la terza media, ma nonostante ciò è la persona più intelligente che conosca. Mi soffermo un attimo ad osservare le sue mani impegnate e ruvide, rovinate da anni e anni di fatiche, come del resto è il suo volto stanco di ciò che sta accadendo, stanco davvero di ogni cosa. Ma ad un certo punto noto che le sue mani si fanno sempre più rapide e capisco; allora lei si gira verso di me e mi abbraccia piangendo, di un pianto senza risposta, insonorizzato, come il mio. Io non posso che dirle che va tutto bene, anche se non lo penso davvero.

Sempre più a terra, torno strisciando come un soldato ferito in camera da letto e proprio su questo mi stendo quasi morto. Li vedo, mamma e papà, lì in prima linea, allo sbaraglio. Ormai non hanno nemmeno gli scudi per proteggersi dal nemico, ma continuano a combattere imperterri, senza fermarsi. Portano i segni della guerra soprattutto in viso e sulle mani abrase. Ora si preparano ad attaccare il nemico. “Sarà una battaglia lunga, forse durerà anche mesi”, annuncia il comandante.

In questa guerra non esiste una patria; in questo scontro non esistono Nazioni da sottomettere, esiste solo la speranza che tutto finirà, che anche loro possano tornare ad abbracciare noi, i loro figli. Chissà com’è bello poter abbracciare i propri genitori tutti i giorni, mi domando, e mi sveglio da un sonno fittizio.

A cena la solita situazione: l’odore della minestra, il profumo dell’arrosto e del vino, i cartoni animati in televisione per il mio fratellino. Ma manca qualcosa, mancano le chiacchiere. La sala da pranzo è come avvolta da un alone di silenzio, un mutismo dovuto al fatto che forse non c’è davvero più nulla da dire, o forse c’è troppo di cui discutere. Suona il telefono, nel mezzo della cena. Sono mamma e papà, stasera verranno a portarci le scorte alimentari.

Finito di sparecchiare io e mio fratello ci prepariamo a scendere. In un battibaleno abbiamo infilato i guanti e ci siamo messi la mascherina. Corriamo giù dalle scale e sentiamo il motore dell’auto entrare nel cortile. A questo punto tutti immaginerebbero una scena commovente, un abbraccio carico d’amore e tante lacrime che sgorgano dagli occhi. Quello rimane però solo un sogno. Scendono dall’auto. A coprire loro bocca e naso una mascherina di protezione non per loro stessi, quanto per noi altri. Cala il silenzio. “Ciao”, dico io con un tono grave, secco. Mio padre ricambia altrettanto tempestivamente. “Vi abbiamo portato la spesa”, dice mia madre aprendo il bagagliaio. La scruto per quanto possibile sotto la mascherina: un volto pallido e irriconoscibile; gli occhi scavati da due occhiaie viola, la parte visibile del naso coperta da solchi rossi, la bocca arida e bianca, gli occhi pesanti, che sembrano aver dimenticato cosa sia la felicità, una parola oramai difficile anche da scrivere, da ricordare. Ci guarda, fissa, e prova quasi a piangere senza risultato, le lacrime non ci sono più.

Mi volto verso mio padre, altrettanto segnato e distrutto, che a differenza di mia madre prova sempre a sorridere, anche quando il sorriso non arriva mai, ma lui tenta ogni volta. Non ha più la barba, per lavoro non può tenerla. Il momento è surreale, è come un dialogo tra quattro defunti, chi solo dentro e chi anche fuori.

Stasera le parole non escono dalla bocca di nessuno. L’abbraccio è un sogno che si dissolve sempre di più e pensare a quanti ne abbiamo respinti fino ad oggi. Non esiste più la speranza di non essere contagiati per loro, lo sanno, e tra pochi giorni lo saranno, se non lo sono già.

L’auto riparte senza aver lasciato nulla a parte la spesa. E con loro si leva dal cuore l’immagine dei miei genitori, di quelli che saranno i miei eroi, di coloro che potranno forse un giorno ricongiungersi a noi».

 

Grazie Leonardo! Le tue parole ci hanno emozionato!

 

 

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