Bucati… in mostra a Riva

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RIVA DEL GARDA – A Riva la mostra «Bucati» dal 5 al 26 settembre. Il progetto è nato da una libera condivisione su Facebook di fotografie di panni stesi, scattate in Italia e all’estero.

Una documentazione che accomuna lo stendere la biancheria come un momento di condivisione collettiva di una pratica che nei tempi passati aveva il suo momento nei lavatoi pubblici, luoghi di vita e di racconti.

La mostra fotografica «Bucati» – che propone anche foto storiche sul tema appartenenti all’archivio fotografico Toninelli di Malcesine (www.fototoninelli.it) – è allestita nella biblioteca civica di Riva del Garda dal 5 al 26 settembre. Inaugurazione sabato 5 settembre alle ore 11. Il progetto è coordinato dall’associazione Il Fotogramma (www.ilfotogramma.org).

Un racconto per introdurre il clima della mostra.

I fili per stendere il bucato venivano appesi dai porticati agli angoli dei cortili sul retro delle case e rappresentavano sempre una risorsa di informazioni sulle tre famiglie italiane la cui biancheria veniva appesa all’aria della umida San Francisco. Negli anni Trenta, durante il periodo della mia infanzia, ogni lunedì mattina le casalinghe si recavano nei propri seminterrati dove si trovavano, sul un pavimento di cemento, le loro lavatrici Maytag, mentre gli strizzatoi di gomma stavano sospesi sulle tinozze utilizzate per il risciacquo. Successivamente le donne portavano fuori pesanti cesti contenenti la biancheria lavata, percorrevano la scalinata esterna per raggiungere i porticati dove il bucato veniva appeso su fili precedentemente ripuliti da polvere e fuliggine. Le donne – Èva dietro casa nostra, Mary di fianco e mia mamma – chiacchieravano da un cortile all’altro mentre erano impegnate con il loro lavoro e le loro voci erano sempre accompagnate dal cigolio dei fili del bucato. Caterina (che viveva di fianco a noi, dal lato opposto rispetto a Mary) stendeva il suo bucato in un altro lato della casa così poteva unirsi alla conversazione solo affacciandosi dalla finestra della sua sala da pranzo che dava proprio sui nostri cortili.

C’era qualcosa di artistico nel modo in cui mia mamma stendeva il bucato: i pezzi più corti e scuri più vicini ai pali, lasciando scoperte le gabbie dei polli che stavano nell’angolo e quelle dei conigli di fianco; le lenzuola e le tovaglie nel mezzo, dove potevano svolazzare liberamente sul terreno sabbioso dell’orto di mio padre. Sopra la parte cementata vicino casa, dove giocavo da sola, mia madre lasciava sufficiente spazio affinché io potessi far rimbalzare la palla o giocare a campana; lì stendeva ordinatamente asciugamani e federe, abiti a fiori e grembiuli, le magliette bianche e le salopette da lavoro di mio padre, scolorite e indurite laddove il cemento e il gesso erano penetrati nella stoffa. La frescura della nebbia invisibile proveniente dall’oceano, permeava ogni cosa, anche nei giorni assolati. A parte i rari periodi caldi, il bucato era sempre molliccio e freddo perciò, una volta ritirato in casa, veniva messo ad asciugare vicino alla grande stufa a legna, prima di essere stirato e piegato. Spesso la nebbia non era invisibile, la vedevamo arrivare a metà pomeriggio guardando da lontano verso i fili del bucato di Mary, fino a che non raggiungeva anche casa nostra. Le donne avevano abbastanza tempo per ritirare il bucato steso, prima che quel grigiore umidiccio avvolgesse le nostre case. Mia madre mi faceva rientrare e io odiavo barattare la relativa libertà che potevo avere nel cortile dietro casa, con i limiti dei tediosi lavori domestici.

Nei giorni in cui minacciava di piovere, le casalinghe guardavano continuamente fuori dalla finestra e la prima che scorgeva qualche goccia di pioggia, lanciava l’allarme a tutti i cortili: “Piove!”. Il cigolio persistente che esercitavano le carrucole dei fili del bucato, rappresentava un secondo allarme e in pochi minuti altre voci all’inizio lontane, raggiungevano i loro fili per compiere, tutte insieme, quel compito comune. C’era poca riservatezza rispetto a ciò che avevi indossato quella settimana, su quali lenzuola avevi dormito o con cosa ti eri pulito poiché era tutto in bella mostra nel tuo cortile, fermato da mollette di legno su un filo posizionato esattamente all’altezza degli occhi. Sapevo che la figlia di Èva in pubertà ancora bagnava il letto e sapevo anche quando ciò accadeva, poiché le sue lenzuola erano stese in un giorno diverso dal lunedì. I figli di Mary tornavano a casa per il fine settimana dai campi di lavoro per ragazzi istituiti all’epoca della Grande depressione, riportando i vestiti sporchi che la madre avrebbe lavato. Mia mamma comprava i sacchi che la fabbrica Sorrento Macaroni di Mission Street usava per tenere la farina (una dozzina per sessanta centesimi) poi li sbiancava e li ricamava per trasformarli in strofinacci per la cucina o biancheria intima per me.

La figlia di Mary indossava già l’intimo acquistato nei negozi, ma lei aveva sei anni più di me. Tra vicini ci si faceva visita di frequente, ma quando ciò non avveniva, le donne erano in grado di capire cosa stesse accadendo nella casa di fianco, poiché si conoscevano bene le abitudini di ciascuno. Poteva essere motivo di apprensione se un lunedì mattina mancava qualcuna in uno dei porticati o se i fili per stendere il bucato rimanevano vuoti, tanto che mia madre mi mandava a bussare alla porta per sapere se qualcuno stava male; non mi vergognavo affatto di andare, mi sembrava normale presentarmi alla porta sul retro dei vicini anche senza invito. Non era nei costumi dell’epoca e di quel luogo, pretendere la propria privacy e rispettare quella altrui. Sapevamo quando i nostri vicini si alzavano e quando andavano a letto, dagli odori capivamo che cosa avrebbero mangiato per cena e, soprattutto, sentivamo le ragioni per le quali litigavano. Esistevano dei segreti, alcuni così inconfessabili di cui le donne parlavano solo sussurrando all’interno delle proprie case.

Bucati

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